Una parabola di formazione condotta sull'onda fulgida di uno stile lirico terso ed intrigante, dove logos e sottotesto campeggiano con rifrazioni empatiche molteplici e di diverso grado.
Conquista di esperienza esemplare per le ultime generazioni, motivo di riflessione per le età smaliziate, "La Città delle Rose" di Nicla Morletti percorre le strade della pacatezza e della necessità, procede per intreccio di metafore, si avvale di personae dall'aura quasi magica, che immediatamente e con tenacia, nelle parole e nelle scene, ammaliano il lettore, lo prendono per mano e non si lasciano dimenticare.
Tra l'altro qui la Natura e l'impronta del Divino si fanno personaggio e sinfonia.
La perspicacia (ed il mestiere) dell'autrice evita con determinazione -e con classe- l'accattivarsi del fruitore soffermandosi a proporre un sogno sospeso, la fragrante utopia: l'immaginario, per la Morletti, è il migliore espediente per lo specchio delle coscienze, chiamate, capitolo per capitolo, pagina dopo pagina, all'autoanalisi, alla disamina schietta, sollecitate al confronto tra l'essere e il possibile, tra egocentrismo e egotismo altruistico.
Lezione da una (apparentemente semplice) grammatica, dell'espressione. Da una non sorprendente sensitività femminile che dovrebbe aprire più e più brecce nella diffidenza e nel preconcetto.
L'abilità sta massimamente nello scampare al luogo comune del vilain tradizionale che poi si ravvede: qui, a parte l'inevitabile ruvidezza del ratto, il re Samuele più che un torbido, arrogante antagonista, dal sé abissale contaminato e dagli intenti perversi, è un avversario intelligente, un uomo che avverte incompletezza e ne soffre, un individuo coi lividi sul cuore, dominato dalla legittima curiositas latina e dal bisogno di un urgente riscatto, disposto a una doviziosa catabasi pur di conquistare la luce.
L'avvenenza di Sapienza, dea e sacerdotessa, matriarca dolcissima e carismatica, non gli è indifferente; ma la manifesta seduzione è quella misterica dei segreti di pneuma e mente che questa insolita creatura, disarmante e ineffabile, custodisce al riparo d'un battito di ciglia, accanto all'incresparsi del sorriso.
L'incontro tra Sapienza e Samuele ricorda quello (impigliato tra storia e leggenda) tra Giustiniano e Teodora (una Teodora non più licenziosa e a Dio convertita): la suggestione dell'intelletto e della grazia interiore sopraffanno la venustà dei lineamenti, delle forme, quindi la libido.
Non proviamo pertanto indignazione o antipatia per Samuele, dalle debolezze e dai dubbi palesemente terreni; dal canto suo, Sapienza non è mai ostilmente ritegnosa con lui, né esageratamente supplichevole: gli oppone dignità, pudore, amicizia; conta sul trionfo del buonsenso, che sposa razionalità e fede alla carità e alla misericordia. Né il sovrano, pur ardendo di trepidante sete, sia intellettuale, sia virilmente pulsionale, cede sbrigativo alla volgare impazienza.
Il soggiorno forzato della protagonista presso il palazzo del re è struggente e malinconico, mai disperato, protratto nel tempo, eppure nel tempo breve, e non conosce oltraggio, o infrazioni morali che non dipendano dai malumori dettati dalla gelosia e dall'invidia (esse stesse fatali e insopprimibili) da parte di mogli e cortigiane.
Le pagine dal tessuto di raso ci allontanano per un lungo, prezioso attimo, dagli orrori del mondo, ripresi spesso e volentieri da tanta letteratura: non ignorano le brutture, ci concedono una boccata d'aria pulita, aprono una pista salvifica dove si possa meditare a volontà, in pace, sulle risposte alla intolleranza bieca e alla cieca stupidità, causa di belligeranza e di tracollo dell'ecosistema.
Nel narrato elegante e "rigorosamente" bello, fiducioso, nella trama a scioglimento positivo, intravvediamo un vero e proprio risarcimento a nostro favore, a beneficio dell'inestinguibile speranza che l'umanità disincantata, disaffettiva, retro o neoscettica non può permettersi di sottovalutare, di smarrire, rispetto alla plumbea cappa di crudeltà, rispetto alle atmosfere dal clima asfittico, strangolante, sinistramente affastellate in gran parte, dei romanzi di oggi.
E gradevole risulta il sub-plot parallelo tra la devota ancella Sara e il nobile Israfel: l'amore innocente che rivela tessuto indissolubile soprattutto contro gli ostacoli etici o pragmatici.
La schietta, naturale carnalità tra Sapienza e Amore, tra Sara e Israfèl non è però ignorata a favore di un preponderante aspetto platonico.
La Morletti adopera al momento giusto espressioni misurate, che non offendono la cadenza dell'eloquio morbido e vivido con il quale ha scelto di caratterizzare il racconto: e di fatto non incrina mai il sense of wonder del testo, la vigile coerenza dei protagonisti e delle figure di contorno (la placida Hegla, la frivola Venia).
L'attrait complessivo del lavoro si ravvisa nel capovolgimento del rapporto ossimorico fiaba-realtà: qui è la terra della libertà e della felicità assolute che rafforza l'esistenza e la rintracciabilità dei valori alti e degli ideali mortificati in questa esistenza nostra quotidiana dominata dalla fretta convulsa, dalla feroce prevaricazione a catena, dal vilipendio della famiglia, dai guasti dell'ipocrisia e dall'infezione dell'indifferenza.
La scrittrice sottolinea "l'invivibilità del vivere" nella società che abbiamo contribuito a costruire attraverso la beneaugurante, sospirata ospitalità nel regno della sospensione dei vizi, delle soper-chierie, delle contraffazioni, dei diritti focomelici, delle irresponsabilità, delle mistificazioni, delle stoltezze e delle blese attenzioni.
Escapismo a tutto tondo? Nient'affatto.
Sapienza e a modo suo la piccola Sara ci esortano di volta in volta ad accorgerci del kairòs d'amore, che sempre, dalla nascita alla dipartita, ci sfiora vicinissimo (eppure invisibile e insussistente per gli insensibili e per i cinici), ci spronano ad afferrarlo e a gestirlo al meglio delle nostre risorse intellettive, così varie da soggetto a soggetto, delle nostre inclinazioni spirituali, del nostro spartito emozionale.
La sconsolata verità sulla condizione umana, nutrita dai fiumi d'inchiostro versati da Pareto, da Machiavelli, da Nietzsche, dalla scuola di Freud e dei suoi teorici non può escludere del tutto la potenza di recupero del sentimento, pur nelle distruttività e nelle aggressività della psiche barbara e delicata, fragile e imprevedibile, logicamente espunto dagli "ismi", dalla melassa delle illusioni.
Nicla Morletti affronta con autentico coraggio intellettuale il tema del Bene e degli affetti, la percezione del divino in noi, nella natura o nell'Altrove.
Lo fa in modo integro, esaustivo, lo fa con la passione di chi difende la chiarezza della conoscenza, lo fa con il linguaggio dorato che non diffama l'umanità pur nelle sue tristissime cadute pur nelle secolari, innegabili miserie.
"La città delle rose', stampato per i tipi pregevoli di Bastogi nella curatissima collana "II Canapo", al di là della rimarchevole capacità descrittiva di Nicla Morletti, si presta, a nostro avviso, alla traslazione scenica per un fruttuoso saggio teatrale scolastico, anche perché il soggetto originale è ricco di dialoghi e monologhi, mentre tante altre pagine sono suscettibili di sviluppo per una ulteriore sceneggiatura (ad esempio nella premessa, nei capitoli 4, 6, 8, 13, 18, 19, 20,29,32,34).
è un invito e forse una tentazione per l'autrice, anche perché dal pluripremiato romanzo "L'ultima canzone d'amore" è scaturita, stando a quanto si apprende nel copioso curriculum artis, una versione teatralizzata in forma di recital col supporto di musica e pantomime.