Già incuriosito da alcuni lusinghieri giudizi - letti su diverse testate - in merito a Nicla Morletti, fine scrittrice senese, nonché ideatrice e segretario del prestigioso Premio Letterario Internazionale "Il Molinello" (organizzato dal Comune di Rapolano Terme), ma ulteriormente invogliato dalla viva stima che per lei nutre Aldo Onorati (il quale, fra l'altro, la cita all'interno del suo recente saggio "I cinque pilastri della stoltezza"), ho chiesto personalmente di poter recensire "La città delle rose", uscito lo scorso marzo per le edizioni Bastogi. La lettura dell'opera ha confermato la bontà dell'idea che mi ero fatto, e la fondatezza della fama che vede la Morletti esser considerata, con pieno merito, come una delle voci più valide e originali, nel panorama letterario contemporaneo (è, di fatti, scrittrice già passata agli onori della storicizzazione, inserita fra l'altro nel "Dizionario degli autori del secondo novecento ).
Questo "La città delle rose" è un libro a dir poco delizioso, che si gusta come un buon vino della terra toscana, da delibare con calma, assaporandone la stoffa, il ventaglio sparto delle sue dolci e infinite sfumature. Si tratta, fra le altre cose, di una storia d'amore in forma di favola antica, di mito primordiale, che si snoda con apparenze allegoriche ma sostanza di simbolo originario, dai profondi e autentici contenuti creativi, dal tono ieratico-sapienziale e dal registro marcatamente "sublime". Mi ha ricordato il Gibran de "Il profeta"; ma più di cuore che quello, più lirico, più compenetrato nella testura invisibile e misteriosa dei sentimenti. è un libro che dà voce alle abissali profondità del cuore umano: l'autrice freme, con-suona, cerca di fondersi, di immergersi, entrare in risonanza con le palpitanti vibrazioni della vita. L'obiettivo forse è quello di guardare il mondo con gli "occhi di Dio", ovvero di arrivare a vedere tutto come miracolo, come parte vivente di un Infinito che è in ogni cosa, che è ogni cosa. Sciogliere lo sguardo alla limpida meraviglia di una cosmogonia mistica e aurorale, che proprio nello spazio orfico dell'opera viene istituita ad essere e trova i suoi magici fondamenti. Il riferimento esplicito alle Sacre Scritture è solo il punto di partenza per una ricreazione mitica del mondo, per una sorta di palingenesi edenica e creativa. è nella fusione mistica di Sapienza e Amore, personificazioni atemporali di principi ultimi, doppiata a sua volta dalla vicenda umana dell'ancella Sara e del suo principe Israfel, dal loro amore assoluto, come totalità di spirito e carne, che si articola il ciclo conoscitivo dell'autrice, la quale, come "umile creatura", aspira a "capire cosa c'è nel cuore degli uomini", pur nella coscienza dolorosa che essi sono soltanto "viaggiatori in questo vasto universo, un vortice di pulviscolo di stelle che danza negli abissi dell'infinito". La vita è il "sussulto di un lampo nel cielo", nient'altro che una "piccola parentesi nell'eternità"; e tuttavia è santa e grande come la terra, la "madre di tutto", e a cui tutto finisce per tornare, incessantemente. E così, benché "tutto sotto il sole è una Chimera", dobbiamo diventare consapevoli che siamo "sogni di Dio", che nella nostra anima "aleggia una scintilla divina". Siamo infiniti, come il ciclo che portiamo dentro al cuore: per questo la conoscenza più autentica è un puro-limite, è qualcosa di inesauribile, di irraggiungibile, come un orizzonte. Una conoscenza che l'autrice, come ogni grande scrittore romantico, aspira a concepire e ad attuare in senso cosmico, essenziale e, al contempo, omnicomprensivo: ella vuole sentire tutta la "forza della vita, la profondità dei sentimenti", il "pulsare dei cuori e il fremito dell'aria"; vuole sciogliere "inni" alla bellezza del mondo, ai suoi "frutti di gloria e di ricchezza"; vuole sfiorare il "mistero della creazione, della vita e della forza sulla terra", con tutte le infinite "meraviglie della cosa unica: il mondo"; vuole suonare la "musica del creato" e dar voce al muto "linguaggio della natura, delle stagioni, del vento, dell'aria", e al "moto dei cuori", simile a quello che agita le onde del mare; vuole penetrare nella struttura stessa "del cosmo e del tempo, fatta di corde e fili incantati che sono le strade dell'anima", e da cui si comunica con "tutti i mondi immaginabili", insomma: vuole "conoscere la vastità della natura, dei pensieri degli uomini, i misteri che racchiude l'universo".
Questo straordinario empito lirico e conoscitivo ci conduce alla scoperta di un luogo ideale, vicinissimo e remoto, ove posa di quiete creativa l'"immensità delle acque in cui tutto si attinge": è lì il "principio vitale, l'anima del mondo che pervade l'universo", l'origine abissale, la matrice che "dà vita e provoca morte". E lì che si cela la "profondità creativa di Dio", e il miracolo infinito dell'amore, inteso - in definitiva - come la profonda e misteriosa armonia dei contrari, e glorificato come il lievito stesso della creazione cosmica, come il "segreto più grande dell'universo". Ed ecco allora la "Città delle rose", il luogo non-luogo di una geografìa puramente ideale (ma insieme concreta, perché è dentro di noi), dove "regnano la gioia di vivere, la speranza e dove i sogni non muoiono mai": una città alla quale giungono migliaia di uomini da ogni parte della terra, tutti coloro che sono assetati di amore, di giustizia, di pace (laddove invece sulla terra regnano "la fame, la sofferenza e la solitudine dei cuori", mentre i potenti commettono ingiustizie e l'oro continua a sedurre il cuore dei re).
Un'attitudine che definirei "poeticamente filosofica"; che, pertanto, riesce ad equilibrare, con felice e sapiente alchimia, una prorompente energia lirica ad una straordinaria concentrazione di pensiero, nel segno della comune "intensità". è l'autrice stessa, del resto, a scrivere che "la radice del pensiero è il cuore", poiché è solo lì che "si cela la verità": è per questo che "l'intelletto cerca, indaga, esplora, ma chi trova è il cuore". Una filosofia edenica che, scavando la sua strada come l'acqua, fra "miti, misteri arcani e dogmi inflessibili", sospinta nel suo corso dalla forza stessa del suo incedere, e accesa da un primordiale afflato cosmico e creativo, si traduce in gioia ed ebbrezza di canto, in fuoco lirico, in armonia "classica" (non classicistica) di forme e di suoni. Un pensiero osmotico e aperto che, come pura energia di creazione, vuole svegliare il mondo dalla falsa luce del disincanto, dalla protervia delle linee di confine, dai refusi e dagli abbagli della ragione separatrice. Un discorso mitopoietico di fondazione, di palingenesi - ripeto - a livello cosmico e, quindi, individuale. Poesia, dunque: altissima poesia, stemperata in una prosa liquida, calibrata, musicale, che si avvale di un linguaggio di sublime ricchezza espressiva e di sontuosa potenza immaginifica, giocato su una dimensione ampiamente sinestesica multisensoriale, a cui è bello e appagante abbandonarsi per tergere ed illimpidire, con il dono di un'"acqua originaria", la chiarezza di visione del proprio sguardo: per nutrire e rinnovare, alle sorgenti stesse della vita, la propria abituale percezione delle cose. Un libro che oserei definire terapeutico e corroborante, da leggere e vivere con il cuore, centellinato come un elisir.