La città delle rose
IL LIBRO E L'AUTRICE Questa è una favola antica. Un arcano messaggio d'amore che proviene da lontano, lontanissimo nel tempo. Forse è stata scritta in un'epoca remota nel libro del destino. Un magico segreto nascosto tra le pagine di un sacro manoscritto, velato di divina malinconia. All'alba della vita, quando le tenebre ricoprivano l'abisso e sulle acque scivolava lo spirito di Dio, Sapienza danzava, la corona di gloria tra i capelli e Amore la guardava. E Iddio disse: "Sia la luce". Scese fulminea una pioggia di raggi sul mondo. Il cielo sovrastò la terra e la notte perenne con i suoi abissali spazi scomparve, lasciando il posto alla luna e alle stelle che furono i segni per distinguere i giorni, le stagioni, gli anni. Sapienza aprì il cancello a nord del giardino di Dio e scese sulla giovinezza del mondo. In quel magico incanto Amore sfiorò le sue labbra. Lei percepì che ben presto avrebbe attraversato le grandi acque della vita e sollevato il velo del tempo. Ebbe inizio così la più bella favola d'amore di ogni epoca, la favola infinita dell'incantesimo di Dio.
Prefazione di Massimo Lucchesi
Appena volgiamo l'attenzione alla affettività, si rimane colpiti dalla sua estensione.
Scrittori, poeti e mistici hanno saputo esprimere poderosi sentimenti di contatto col cosmo e col divino. E le comuni opere letterarie o artistiche occupano l'immenso spazio delle pulsioni e dei conflitti che qualificano la nostra affettività.
Se teniamo presente l'importanza di questo campo affettivo, si ha, però, l'impressione che l'intelletto umano non abbia consacrato molti sforzi a studiarlo. Diverse possono essere le motivazioni.
Prima di tutto e soggettivamente: non è facile che ci si senta pronti ad affrontare l'analisi del mondo instabile e fluido dell'affettività. Abituati a maneggiare concetti e piuttosto inclini a determinare norme di azione, come potremmo attardarci a soppesare le reazioni emotive per valutarne saggiamente il senso spirituale?
Il termine "affettività", nel suo senso più saggio, è inoltre poco definito. Diamogli l'accezione più estesa, intendendo per affettività l'insieme dei movimenti della mente che presentino un momento di passività. A questa istanza affettiva potremmo ricondurre sia le pulsioni studiate dalla psicoanalisi, sia i sentimenti più mistici. Ecco il vasto campo che si presenta al nostro desiderio di saggezza e di cui vogliamo tentare l'esplorazione.
E' una esplorazione che si rivela tanto più necessaria quanto più, chi vi si ingegna saggiamente, sceglie come campo del proprio studio l'uomo nella sua relazione a Dio. Non appena infatti la si affronta, la riflessione sull'istanza affettiva diviene inevitabile.
Riassumendo tutta la legge nel doppio comandamento dell'amore di Dio e del prossimo, si è invitati a riflettere sulla natura di tale amore. Esso si identifica puramente e semplicemente con l'obbedienza alla legge riconosciuta dalla ragione, o implica altri fattori che giova ricondurre all'istanza affettiva? D'altronde, come vivere concretamente il precetto "Amerai il Signore Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" (Dt 6,5; Mt 22,37)? L'integralità di questo amore non implica necessariamente una partecipazione affettiva?
Attraverso il racconto degli interventi di Dio nella storia, sappiamo che tale amore è benevolenza, pietà e misericordia. Se dunque ci atteniamo a questo, dobbiamo applicare a Dio nozioni affettive. Esse sono troppo presenti nei libri della Bibbia, perché una riflessione autenticamente sapiente possa trascurarli.
Porre in Dio operazioni che risalgono alla affettività introduce un dato teologico nuovo: poiché abbiamo qualificato l'affettività come essenzialmente passiva, bisogna domandarsi come e in quale misura un tale dato possa applicarsi a Dio.
Ancora: se da una parte Dio si definisce come amore e misericordia, e se dall'altra parte la legge morale fondamentale si riassume nell'amore, è giusto chiedersi: queste due proposizioni non saranno unite da legami intelligibili profondi? In altri termini bisogna domandarsi se una teologia conseguente non debba includere una riflessione approfondita sul senso e la funzione di una teologia affettiva.
L'interrogativo è tanto più impellente se consideriamo non solo i princìpi della vita ispirata alla ricerca di Dio ma anche il suo sviluppo storico. La partecipazione alla grazia divina, che è il primo effetto dell'amore di Dio in noi, non implica forse una trasformazione della coscienza dovuta all'introduzione di elementi nuovi, appartenenti all'istanza affettiva?
I doni dello Spirito ci arricchiscono di sapienza, di forza, di timore e di pietà e così si inseriscono nella nostra affettività spirituale; similmente l'esperienza delle consolazioni e delle desolazioni spirituali somiglia all'esperienza dei movimenti depressivi o euforici. Osservazioni che ci invitano a porre la dimensione teologica di una affettività spirituale.
Di fatto una riflessione approfondita sull'affettività s'impone, soprattutto nel campo della spiritualità. Che cosa intendiamo per teologia spirituale, se non una riflessione sulla vita dello spirito e dunque, sia pure laicamente, su una certa esperienza di un mondo trascendente? Una simile esperienza, si sviluppa in un clima affettivo: a partire dal cambiamento di se stessi, fino a quella consumazione in cui si gustano i frutti dello Spirito ed è anticipata la beatitudine, si operano trasformazioni profonde che coinvolgono i sentimenti e le disposizioni fondamentali dell'uomo in cerca di Dio.
Non si può, però, considerare una istanza puramente soprannaturale senza tener conto dell'inserimento di tale realtà nella nostra umanità, tanto più se, in questo percorso, una matura sapienza conduce all'unificazione interiore della persona. E' dunque compito da sapienti studiare come, nell'unità della coscienza, l'affettività soprannaturale entri in rapporto con la dimensione affettiva naturale in tutta la sua complessità, tanto più che, nel campo affettivo, l'unità della coscienza s'impone con forza.
Per illuminare questa via, il libro "La città delle Rose - Sapienza e amore" richiama l'interiorità e la intelligenza di antichi teologi che hanno cercato di definire il ruolo dell'amore nella vita spirituale. Particolarmente sant'Agostino, ma anche i rappresentanti della teologia monastica che si ispirano a lui.
Disegnare le linee di amore e sapienza, suggerendo al contempo una pedagogia della formazione spirituale che possa integrarla: tale è forse l'umile ma grande intento di questo originale romanzo.
Un libro attento e discreto nel racconto di una storia piena di affetti, che vuole rispondere anche all'attesa di tutti coloro che soffrono per l'assenza di una più consapevole, matura e sapiente vita di amore densa di umanità e di Spirito.
TERZA PAGINA SOVERA Numero 3 - Febbraio 2005 Marco Onofrio
Già incuriosito da alcuni lusinghieri giudizi - letti su diverse testate - in merito a Nicla Morletti, fine scrittrice senese, nonché ideatrice e segretario del prestigioso Premio Letterario Internazionale "Il Molinello" (organizzato dal Comune di Rapolano Terme), ma ulteriormente invogliato dalla viva stima che per lei nutre Aldo Onorati (il quale, fra l'altro, la cita all'interno del suo recente saggio "I cinque pilastri della stoltezza"), ho chiesto personalmente di poter recensire "La città delle rose", uscito lo scorso marzo per le edizioni Bastogi. La lettura dell'opera ha confermato la bontà dell'idea che mi ero fatto, e la fondatezza della fama che vede la Morletti esser considerata, con pieno merito, come una delle voci più valide e originali, nel panorama letterario contemporaneo (è, di fatti, scrittrice già passata agli onori della storicizzazione, inserita fra l'altro nel "Dizionario degli autori del secondo novecento ).
Questo "La città delle rose" è un libro a dir poco delizioso, che si gusta come un buon vino della terra toscana, da delibare con calma, assaporandone la stoffa, il ventaglio sparto delle sue dolci e infinite sfumature. Si tratta, fra le altre cose, di una storia d'amore in forma di favola antica, di mito primordiale, che si snoda con apparenze allegoriche ma sostanza di simbolo originario, dai profondi e autentici contenuti creativi, dal tono ieratico-sapienziale e dal registro marcatamente "sublime". Mi ha ricordato il Gibran de "Il profeta"; ma più di cuore che quello, più lirico, più compenetrato nella testura invisibile e misteriosa dei sentimenti. è un libro che dà voce alle abissali profondità del cuore umano: l'autrice freme, con-suona, cerca di fondersi, di immergersi, entrare in risonanza con le palpitanti vibrazioni della vita. L'obiettivo forse è quello di guardare il mondo con gli "occhi di Dio", ovvero di arrivare a vedere tutto come miracolo, come parte vivente di un Infinito che è in ogni cosa, che è ogni cosa. Sciogliere lo sguardo alla limpida meraviglia di una cosmogonia mistica e aurorale, che proprio nello spazio orfico dell'opera viene istituita ad essere e trova i suoi magici fondamenti. Il riferimento esplicito alle Sacre Scritture è solo il punto di partenza per una ricreazione mitica del mondo, per una sorta di palingenesi edenica e creativa. è nella fusione mistica di Sapienza e Amore, personificazioni atemporali di principi ultimi, doppiata a sua volta dalla vicenda umana dell'ancella Sara e del suo principe Israfel, dal loro amore assoluto, come totalità di spirito e carne, che si articola il ciclo conoscitivo dell'autrice, la quale, come "umile creatura", aspira a "capire cosa c'è nel cuore degli uomini", pur nella coscienza dolorosa che essi sono soltanto "viaggiatori in questo vasto universo, un vortice di pulviscolo di stelle che danza negli abissi dell'infinito". La vita è il "sussulto di un lampo nel cielo", nient'altro che una "piccola parentesi nell'eternità"; e tuttavia è santa e grande come la terra, la "madre di tutto", e a cui tutto finisce per tornare, incessantemente. E così, benché "tutto sotto il sole è una Chimera", dobbiamo diventare consapevoli che siamo "sogni di Dio", che nella nostra anima "aleggia una scintilla divina". Siamo infiniti, come il ciclo che portiamo dentro al cuore: per questo la conoscenza più autentica è un puro-limite, è qualcosa di inesauribile, di irraggiungibile, come un orizzonte. Una conoscenza che l'autrice, come ogni grande scrittore romantico, aspira a concepire e ad attuare in senso cosmico, essenziale e, al contempo, omnicomprensivo: ella vuole sentire tutta la "forza della vita, la profondità dei sentimenti", il "pulsare dei cuori e il fremito dell'aria"; vuole sciogliere "inni" alla bellezza del mondo, ai suoi "frutti di gloria e di ricchezza"; vuole sfiorare il "mistero della creazione, della vita e della forza sulla terra", con tutte le infinite "meraviglie della cosa unica: il mondo"; vuole suonare la "musica del creato" e dar voce al muto "linguaggio della natura, delle stagioni, del vento, dell'aria", e al "moto dei cuori", simile a quello che agita le onde del mare; vuole penetrare nella struttura stessa "del cosmo e del tempo, fatta di corde e fili incantati che sono le strade dell'anima", e da cui si comunica con "tutti i mondi immaginabili", insomma: vuole "conoscere la vastità della natura, dei pensieri degli uomini, i misteri che racchiude l'universo".
Questo straordinario empito lirico e conoscitivo ci conduce alla scoperta di un luogo ideale, vicinissimo e remoto, ove posa di quiete creativa l'"immensità delle acque in cui tutto si attinge": è lì il "principio vitale, l'anima del mondo che pervade l'universo", l'origine abissale, la matrice che "dà vita e provoca morte". E lì che si cela la "profondità creativa di Dio", e il miracolo infinito dell'amore, inteso - in definitiva - come la profonda e misteriosa armonia dei contrari, e glorificato come il lievito stesso della creazione cosmica, come il "segreto più grande dell'universo". Ed ecco allora la "Città delle rose", il luogo non-luogo di una geografìa puramente ideale (ma insieme concreta, perché è dentro di noi), dove "regnano la gioia di vivere, la speranza e dove i sogni non muoiono mai": una città alla quale giungono migliaia di uomini da ogni parte della terra, tutti coloro che sono assetati di amore, di giustizia, di pace (laddove invece sulla terra regnano "la fame, la sofferenza e la solitudine dei cuori", mentre i potenti commettono ingiustizie e l'oro continua a sedurre il cuore dei re).
Un'attitudine che definirei "poeticamente filosofica"; che, pertanto, riesce ad equilibrare, con felice e sapiente alchimia, una prorompente energia lirica ad una straordinaria concentrazione di pensiero, nel segno della comune "intensità". è l'autrice stessa, del resto, a scrivere che "la radice del pensiero è il cuore", poiché è solo lì che "si cela la verità": è per questo che "l'intelletto cerca, indaga, esplora, ma chi trova è il cuore". Una filosofia edenica che, scavando la sua strada come l'acqua, fra "miti, misteri arcani e dogmi inflessibili", sospinta nel suo corso dalla forza stessa del suo incedere, e accesa da un primordiale afflato cosmico e creativo, si traduce in gioia ed ebbrezza di canto, in fuoco lirico, in armonia "classica" (non classicistica) di forme e di suoni. Un pensiero osmotico e aperto che, come pura energia di creazione, vuole svegliare il mondo dalla falsa luce del disincanto, dalla protervia delle linee di confine, dai refusi e dagli abbagli della ragione separatrice. Un discorso mitopoietico di fondazione, di palingenesi - ripeto - a livello cosmico e, quindi, individuale. Poesia, dunque: altissima poesia, stemperata in una prosa liquida, calibrata, musicale, che si avvale di un linguaggio di sublime ricchezza espressiva e di sontuosa potenza immaginifica, giocato su una dimensione ampiamente sinestesica multisensoriale, a cui è bello e appagante abbandonarsi per tergere ed illimpidire, con il dono di un'"acqua originaria", la chiarezza di visione del proprio sguardo: per nutrire e rinnovare, alle sorgenti stesse della vita, la propria abituale percezione delle cose. Un libro che oserei definire terapeutico e corroborante, da leggere e vivere con il cuore, centellinato come un elisir.
ALTIRPINIA del 28 febbraio 2005 - Armando Saveriano
Una parabola di formazione condotta sull'onda fulgida di uno stile lirico terso ed intrigante, dove logos e sottotesto campeggiano con rifrazioni empatiche molteplici e di diverso grado.
Conquista di esperienza esemplare per le ultime generazioni, motivo di riflessione per le età smaliziate, "La Città delle Rose" di Nicla Morletti percorre le strade della pacatezza e della necessità, procede per intreccio di metafore, si avvale di personae dall'aura quasi magica, che immediatamente e con tenacia, nelle parole e nelle scene, ammaliano il lettore, lo prendono per mano e non si lasciano dimenticare.
Tra l'altro qui la Natura e l'impronta del Divino si fanno personaggio e sinfonia.
La perspicacia (ed il mestiere) dell'autrice evita con determinazione -e con classe- l'accattivarsi del fruitore soffermandosi a proporre un sogno sospeso, la fragrante utopia: l'immaginario, per la Morletti, è il migliore espediente per lo specchio delle coscienze, chiamate, capitolo per capitolo, pagina dopo pagina, all'autoanalisi, alla disamina schietta, sollecitate al confronto tra l'essere e il possibile, tra egocentrismo e egotismo altruistico.
Lezione da una (apparentemente semplice) grammatica, dell'espressione. Da una non sorprendente sensitività femminile che dovrebbe aprire più e più brecce nella diffidenza e nel preconcetto.
L'abilità sta massimamente nello scampare al luogo comune del vilain tradizionale che poi si ravvede: qui, a parte l'inevitabile ruvidezza del ratto, il re Samuele più che un torbido, arrogante antagonista, dal sé abissale contaminato e dagli intenti perversi, è un avversario intelligente, un uomo che avverte incompletezza e ne soffre, un individuo coi lividi sul cuore, dominato dalla legittima curiositas latina e dal bisogno di un urgente riscatto, disposto a una doviziosa catabasi pur di conquistare la luce.
L'avvenenza di Sapienza, dea e sacerdotessa, matriarca dolcissima e carismatica, non gli è indifferente; ma la manifesta seduzione è quella misterica dei segreti di pneuma e mente che questa insolita creatura, disarmante e ineffabile, custodisce al riparo d'un battito di ciglia, accanto all'incresparsi del sorriso.
L'incontro tra Sapienza e Samuele ricorda quello (impigliato tra storia e leggenda) tra Giustiniano e Teodora (una Teodora non più licenziosa e a Dio convertita): la suggestione dell'intelletto e della grazia interiore sopraffanno la venustà dei lineamenti, delle forme, quindi la libido.
Non proviamo pertanto indignazione o antipatia per Samuele, dalle debolezze e dai dubbi palesemente terreni; dal canto suo, Sapienza non è mai ostilmente ritegnosa con lui, né esageratamente supplichevole: gli oppone dignità, pudore, amicizia; conta sul trionfo del buonsenso, che sposa razionalità e fede alla carità e alla misericordia. Né il sovrano, pur ardendo di trepidante sete, sia intellettuale, sia virilmente pulsionale, cede sbrigativo alla volgare impazienza.
Il soggiorno forzato della protagonista presso il palazzo del re è struggente e malinconico, mai disperato, protratto nel tempo, eppure nel tempo breve, e non conosce oltraggio, o infrazioni morali che non dipendano dai malumori dettati dalla gelosia e dall'invidia (esse stesse fatali e insopprimibili) da parte di mogli e cortigiane.
Le pagine dal tessuto di raso ci allontanano per un lungo, prezioso attimo, dagli orrori del mondo, ripresi spesso e volentieri da tanta letteratura: non ignorano le brutture, ci concedono una boccata d'aria pulita, aprono una pista salvifica dove si possa meditare a volontà, in pace, sulle risposte alla intolleranza bieca e alla cieca stupidità, causa di belligeranza e di tracollo dell'ecosistema.
Nel narrato elegante e "rigorosamente" bello, fiducioso, nella trama a scioglimento positivo, intravvediamo un vero e proprio risarcimento a nostro favore, a beneficio dell'inestinguibile speranza che l'umanità disincantata, disaffettiva, retro o neoscettica non può permettersi di sottovalutare, di smarrire, rispetto alla plumbea cappa di crudeltà, rispetto alle atmosfere dal clima asfittico, strangolante, sinistramente affastellate in gran parte, dei romanzi di oggi.
E gradevole risulta il sub-plot parallelo tra la devota ancella Sara e il nobile Israfel: l'amore innocente che rivela tessuto indissolubile soprattutto contro gli ostacoli etici o pragmatici.
La schietta, naturale carnalità tra Sapienza e Amore, tra Sara e Israfèl non è però ignorata a favore di un preponderante aspetto platonico.
La Morletti adopera al momento giusto espressioni misurate, che non offendono la cadenza dell'eloquio morbido e vivido con il quale ha scelto di caratterizzare il racconto: e di fatto non incrina mai il sense of wonder del testo, la vigile coerenza dei protagonisti e delle figure di contorno (la placida Hegla, la frivola Venia).
L'attrait complessivo del lavoro si ravvisa nel capovolgimento del rapporto ossimorico fiaba-realtà: qui è la terra della libertà e della felicità assolute che rafforza l'esistenza e la rintracciabilità dei valori alti e degli ideali mortificati in questa esistenza nostra quotidiana dominata dalla fretta convulsa, dalla feroce prevaricazione a catena, dal vilipendio della famiglia, dai guasti dell'ipocrisia e dall'infezione dell'indifferenza.
La scrittrice sottolinea "l'invivibilità del vivere" nella società che abbiamo contribuito a costruire attraverso la beneaugurante, sospirata ospitalità nel regno della sospensione dei vizi, delle soper-chierie, delle contraffazioni, dei diritti focomelici, delle irresponsabilità, delle mistificazioni, delle stoltezze e delle blese attenzioni.
Escapismo a tutto tondo? Nient'affatto.
Sapienza e a modo suo la piccola Sara ci esortano di volta in volta ad accorgerci del kairòs d'amore, che sempre, dalla nascita alla dipartita, ci sfiora vicinissimo (eppure invisibile e insussistente per gli insensibili e per i cinici), ci spronano ad afferrarlo e a gestirlo al meglio delle nostre risorse intellettive, così varie da soggetto a soggetto, delle nostre inclinazioni spirituali, del nostro spartito emozionale.
La sconsolata verità sulla condizione umana, nutrita dai fiumi d'inchiostro versati da Pareto, da Machiavelli, da Nietzsche, dalla scuola di Freud e dei suoi teorici non può escludere del tutto la potenza di recupero del sentimento, pur nelle distruttività e nelle aggressività della psiche barbara e delicata, fragile e imprevedibile, logicamente espunto dagli "ismi", dalla melassa delle illusioni.
Nicla Morletti affronta con autentico coraggio intellettuale il tema del Bene e degli affetti, la percezione del divino in noi, nella natura o nell'Altrove.
Lo fa in modo integro, esaustivo, lo fa con la passione di chi difende la chiarezza della conoscenza, lo fa con il linguaggio dorato che non diffama l'umanità pur nelle sue tristissime cadute pur nelle secolari, innegabili miserie.
"La città delle rose'', stampato per i tipi pregevoli di Bastogi nella curatissima collana "II Canapo", al di là della rimarchevole capacità descrittiva di Nicla Morletti, si presta, a nostro avviso, alla traslazione scenica per un fruttuoso saggio teatrale scolastico, anche perché il soggetto originale è ricco di dialoghi e monologhi, mentre tante altre pagine sono suscettibili di sviluppo per una ulteriore sceneggiatura (ad esempio nella premessa, nei capitoli 4, 6, 8, 13, 18, 19, 20,29,32,34).
è un invito e forse una tentazione per l'autrice, anche perché dal pluripremiato romanzo "L'ultima canzone d'amore" è scaturita, stando a quanto si apprende nel copioso curriculum artis, una versione teatralizzata in forma di recital col supporto di musica e pantomime.
ALTIRPINIA del 30 settembre 2004 - Luigi Pumpo
Nicla Morletti è una signora di una gentilezza disarmante, che non alza mai la voce. Se la scrittrice è colei che sciorina a voce spiegata pompose parole autocompiaciute, perdendosi spesso in un labirinto verbale di virtuosismi senza costrutto, disancorata alla realtà, Morletti non è scrittrice.
Nicla Morletti quando parla e quando scrive, perfino quando si veste, è persona sommessa, discreta, mai autoritaria e pretenziosa. Quando cammina, scivola leggera senza far rumore. Riversa l'anima nel discutere di politica, lucida, tenace, ma non grida per sopraffare l'interlocutore. Se la scrittrice sovente è un narciso desideroso di riflettersi, professionista dell'ostentazione, Nicla Morletti non è scrittrice. Ma se come sottolinea con forza Emily Dickinson in una sua poesia, il protagonismo esibizionista che imperversa ovunque, ma specie fra le scrittrici e le poetesse è "volgare - come una rana che ripete il suo nome - per tutto giugno - a stagno ammirato", allora la faccenda acquisisce un punto di vista ben diverso. E la poesia di Dickinson è un intervento evidente in questo libro La città delle rose (Foggia, Ed. Bastogi 2004). Come palese è l'influenza della letteratura rosa - una delle passioni che hanno segnato la vita della scrittrice - quasi un subtesto a conferire imprescindibile nitore e concisione alle pagine della Morletti.
Visto il personaggio, un tomo di centinaia di pagine sarebbe stato ideale a rappresentare l'attività di narratrice, che pure copre un arco quasi di un ventennio. Invece, questo snello libro coniuga felicemente 1'impegno di una donna/scrittrice, proiettata con una sua attenzione empatica e minuziosa, verso uno specchio dove non si affacciano frammenti, ma pagine dal valore universale e al tempo stesso personalissime.
Con La città delle rose - un ulteriore anello di un rosario narrativo fecondo e felice insieme - Nicla Morletti affonda la sua penna nella quotidianità spirituale del suo mondo, quasi in una cronaca spicciola di fatti, di avvenimenti che hanno colpito la sua sensibilità in modo travolgente: e ne sono nate impressioni di gioia, di un rifluire nell'anima di dolori antichi, e da un sentimento che sta tra la nostalgia e il rimorso. Ebbene, in un arco di alta spiritualità, Nicla Merletti ci mostra come la prosa moderna sia sbocciata dal dolore della vita d'oggi.
Scrive Massimo Lucchesi che il romanzo di Nicla Morletti è "un libro attento e discreto nel racconto di una storia piena di affetti, che vuole rispondere anche all'attesa di tutti coloro che soffrono per l'assenza di una più consapevole, matura e sapiente vita di amore densa di umanità e di Spirito". Ed infatti Nicla Morletti in queste pagine testimonia di una precisa connotazione sia per la limpidezza della lingua, la precisione semantica, la soave musicalità sia per la densità del percorso spirituale; ed occorre affermare che La città delle rose, nel suo coinvolgimento, è scrittura di ricerca e di approfondimento, ma al tempo stesso anche ricerca della relazione, della significatività del rapporto umano.
Si può dire che questo romanzo di questa fine scrittrice è risolto nel diario io/tu, ma anche io/TU: rapporto orizzontale con la realtà, rapporto verticale con Dio. Si tratta di un Dio a volte sfuggente, altre volte invece comprendente l'intera visione dell'Autrice, quasi in immersione panica con la Divinità.
Poesia-preghiera che mira alla elevazione di sé e del lettore, Poesia-emozione ma anche, al contempo, pagine ragionative: tutto mira al messaggio, all'indicazione di un itinerario o che, per lo meno, addita la propria esperienza di vita come luogo di una riflessione sul mondo. Pagine che, in sostanza, vogliono essere un dono per una umanità che si sperde in vacui materialismi o nello stordimento delle coscienze. Anche in questo nuovo romanzo Nicla Morletti prosegue il suo percorso di una narrativa per così dire spirituale o meglio ancora esistenziale, che si fa carico dei grandi interrogativi umani: Dio, la felicità, il tempo, l'egoismo, il sogno, lo spazio, l'amore, l'unità dell'Essere, secondo una scansione ed una cifra che ravvicinano in un certo modo ai pensieri pascaliani: ed i capitoli trascorrono da un atteggiamento dell'anima ad un altro, dal risveglio al ridestarsi della vita ulteriore ad una visione più spirituale dell'esistenza al sentimento dell'attesa.
D'altro canto, il romanzo è anche poesia squisitamente religiosa, cioè vicinanza a Dio, poesia/narrativa che si muta anche in preghiera e in certezza che Dio è per tutti, che lo sguardo di Dio è la salvezza universale.
TOSCANA OGGI del 26 settembre 2004 - Angelo Pellegrini
Cantico d'amore e La città delle rose
Due "quasi romanzi" tra Bibbia e racconto
Non avevo preso troppo sul serio l'impegno di coloro che si occupano di teologia senza essere addetti ai lavori. Ho scoperto invece che dai loro sforzi possono nascere opere molto interessanti, che meritano di essere segnalate. Il teologo non ricerchi in questi contributi la perfezione della definizione, il biblista non sia troppo preso dalla passione filologica, si lascino piuttosto trasportare entrambi dalla musicalità e dalla forza di alcune immagini assai dense. Questo è anche il caso di due "quasi romanzi" della scrittrice e giornalista Nicla Morletti: Cantico d'amore e La città delle rose (editi da Bastogi).
Sullo sfondo di un dialogo fra due innamorati troviamo nel primo testo il sublime Cantico dei Cantici. Apparso con la prefazione preziosa di Massimo Lucchesi, esso ci richiama al tentativo di un nuovo modo, narrativo, di accostarsi alla teologia. La città delle rose è l'ideale continuazione del primo. Evolvendo fra brevi meditazioni, storie ed aforismi, tale opera, oltre ad avere ancora una pregevole prefazione di Lucchesi, si fregia di una nota alquanto poetica di Mario Luzi.
Mi è particolarmente gradito segnalare tali eventi editoriali: ritengo sia importantissimo incoraggiare chi dal proprio ambito approfondisce la fede cristiana e quando la ricerca diventa canto allora possiamo essere veramente lieti. Ritengo che la comunità dei credenti possa approfondire il dato di fede per questa via narrativa, mantenendo alta l'attenzione alle discipline teologiche, le quali mirano anche a limitare il rischio di interpretazioni troppo private del dato biblico o di fede.
Angelo Pellegrini